«Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù».
(Mt 1,18-25)
Per capire il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria dobbiamo entrare, almeno sommariamente, nel mondo delle usanze matrimoniali dell'antico Israele. Il matrimonio comprendeva due fasi definite. La prima - denominata in aramaico qiddushin, cioè "consacrazione", perché la donna veniva "consacrata" al suo sposo - consisteva nel fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza, che solitamente aveva dodici o tredici anni. La ratifica di questo primo atto comportava una nuova situazione per la donna: pur continuando a vivere a casa sua al'incirca per un altro anno, essa era chiamata e considera già "moglie" del suo futuro marito e per questo ogni infedeltà era ritenuta un adulterio.
La seconda fase era chiamata nissu'in (dal verbo nasa', ossia "sollevare, portare"), in quanto evocava il trasferimento processionale della sposa che veniva "portata" nella casa dello sposo; è tra l'altro un avvenimento che fa da sfondo a una parabola di Gesù, avente per protagoniste le ancelle di un festoso corteo nuziale notturno. Questo atto suggellava la seconda e definitiva tappa del matrimonio ebraico.
Il racconto che abbiamo letto sopra si colloca, allora, nella prima fase, quella del fidanzamento/"consacrazione": «Prima che andassero a vivere insieme [con il trasferimento nella casa di Giuseppe], Maria si trovò incinta».
Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica. Il libro biblico del Deuteronomio era chiaro e implacabile: «Se la giovane non è stata trovata in stato di verginità, condurranno la giovane alla porta della casa di suo padre e la gente della sua città la lapiderà, così che muoia, perchè ha commesso un'infamia in Israele, profanando la casa di suo padre» (22, 20-21). Nel giudaismo successivo, però, aveva preso piede un'altra norma più moderata, quella che imponeva soltanto il ripudio.
Trattandosi di una vera e propria "moglie", si doveva celebrare un divorzio ufficiale con tutte le conseguenze civili e penali per la donna. Giuseppe deve ripudiare Maria a causa della legge che lo obbliga a questo; essendo uomo "giusto" giuridicamente, coioè obbediente alla legge dei padri, egli si mette su questa strada amara, ma essendo anche uomo "giusto" moralmente - secondo l'uso biblico di questo aggettivo, con il significato di "mite, misericordioso, buono" - egli vuole farlo nella forma più delicata e più attenta per la donna.
Sceglie, allora, la via "segreta", senza denunzia legale, senza processo e clamore, alla presenza dei soli due testimoni necessari per la validità dell'atto di divorzio, consistente nella consegna del cosiddetto "libello di ripudio".
Certo, in questo caso ipotetico la nostra sensibilità ci fa subito dire: che ne sarebbe stato di Maria? La risposta è purtroppo chiara e inequivocabile: sarebbe stata un'emarginata, rifiutata dall'opinione comune, accolta forse solo dal clan paterno assieme al figlio illeggittimo che avrebbe generato.
Ma lasciamo da parte questa ipotesi irreale e ritorniamo a Giuseppe e al suo dramma interiore, peraltro non lontano da quello vissuto da tante coppie di fidanzati, sia pure per ragioni ben diverse.
La sua oscura tensione è, all'improvviso, squarciata da una luce: l'angelo nella Bibbia è per eccellenza il segno di una rivelazione divina, come il sogno (se ne contano cinque nel vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Matteo) è il simbolo della comunicazione di un mistero. «Non temere di prendere con te», cioè di portare Maria a casa tua, completando così anche la seconda fase del matrimonio, dice l'angelo a Giuseppe. Ed è qui che scatta la grande rivelazione del mistero che si sta compiendo in Maria: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». È questa la sopresa straordinaria che dovrà sconvolgere la vita di Giuseppe.
Si aprono allora per Giuseppe una vita nuova e una missione unica. Egli, che è «figlio di Davide» (è l'unica volta nei Vangeli in cui questo titolo non viene applicato a Gesù), dovrà trasmettere la linea ereditaria davidica al figlio di Maria, nella qualità di padre legale. Potremmo dire che, come Maria è colei per mezzo della quale Gesù nasce nel mondo come figlio di Dio, Giuseppe è colui per mezzo del quale Gesù nasce nella storia come figlio di Davide, cioè discendente del famoso re ebreo, dalla cui linea genealogica si attendeva il messia.
La paternità legale o "putativa" in Oriente era molto più normale di quanto possiamo immaginare. Esemplare è il caos del "levirato" (dal latino levir, cognato), così formulato nel Deuteronomio: «Se alcuni fratelli abitano insieme e uno di loro muore senza figli, la moglie del defunto non sposerà uno di fuori, un estraneo; suo cognato andrà da lei e la sposerà compiendo verso di lei il dovere di cognato; il primogenito che essa genererà porterà il nome del fratello defunto: così il suo nome non sarà cancellato da Israele» (25, 5-6). In altre parole il padre reale di questo figlio è il cognato, ma il padre legale restail defunto che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari. Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome, riconoscendolo giuridicamente.
Nella Bibbia il nome è il compendio simbolico di una persona, è la sua carta d'identità: perciò, anche se si hanno delle eccezioni (è Eva a chiamare "Set" il suo secondo figlio), è il padre a dichiarare il nome del figlio e Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c'è un nome preparato da Dio.
Nella narrazione di Matteo c'è un ultimo dato da decifrare. È nella frase finale, quella della nacsita di Gesù, che letteralmente suona così: «Giuseppe prese con sé la sua sposa e non la conobbe prima che gli partorisse il figlio». Sappiamo che nella Bibbia il verbo "conoscere" è un eufemismo per alludere all'atto matrimoniale. Sulla frase per secoli si è accesa un'aspra discussione teologica riguardante la verginità perpetua di Maria e la presenza nei vangeli dei cosiddetti «fratelli e sorelle» di Gesù. In realtà il testo di Matteo nel suo tenore originale non affronta tale questione, dal momento che in italiano, quando si dice che una cosa non succede "fino a" un certo tempo, si suppone di solito che abbia luogo dopo.
In greco, invece, e nelle lingue semitiche si vuole mettere l'accento solo su ciò che avviene fino alla scandenza del "finché": Giuseppe non ebbe rapporti con Maria eppure nacque Gesù.
Il tema fondamentale inteso dall'evangelista è, perciò, quello della concezione verginale di Maria. Il Cristo non nasce da seme umano né da volere della carne, ma solo per lo Spirito di Dio che opera in Maria vergine. Corretta è allora la traduzione che ci propone la Bibbia ufficiale della Conferenza Episcopale italiana, danoi sopra adottata: «Senza che Giuseppe la conoscesse, Maria diede alla luce un figlio».
(Gianfranco Ravasi, Giuseppe. Il padre di Gesù, San Paolo, 2014, pp.13-21)
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