(T. Stramare, Giuseppe lo chiamò Gesù - Portalupi Editore, 2001, pp. 112-113)
La vita a Nazaret. Giuseppe non doveva essere un uomo senza personalità, se la gente si riferisce esclusivamente a lui per indicare Gesù, «figlio del falegname». Gesù stesso gli ha sempre riservato il rispetto che si deve a un padre, come si ricava dalle parole con le quali Luca condenza tutta la vita privata di Gesù: «Era loro sottomesso». In quegli anni Gesù cresceva «in sapienza, in statura e in grazia» sotto gli occhi di san Giuseppe, il quale lo ebbe sempre accanto a sé per motivi di lavoro. Da Giuseppe Gesù non imparò solo il mestiere, ma tutto ciò che una lunga comunanza di lavoro e di vita comporta, tenuto conto che a Nazaret le relazioni sociali non dovevano essere molto estese e che Gesù lavorava nella stessa bottega di san Giuseppe. D'altra parte, quanto di più non dovette imparare da Gesù il fortunato Giuseppe, l'unico uomo che ebbe la felice sorte di «lavorare con Dio»?
Come dissociare, quindi, in san Giuseppe la vita attiva dalla vita contemplativa? In lui trovano giustamente il loro modello sia i lavoratori sia le persone consacrate.
Come dissociare, quindi, in san Giuseppe la vita attiva dalla vita contemplativa? In lui trovano giustamente il loro modello sia i lavoratori sia le persone consacrate.
La morte. Con la vita pubblica di Gesù, san Giuseppe scomparve nell'ombra perché Gesù potesse rivelare apertamente la sua grandezza di Figlio eterno del divino Padre. Nulla sappiamo della sua morte, ma il cuore ci dice che dovette essere una morte serena, confortata dalla presenza di Maria e di Gesù. Per questo i cristiani, considerando invidiabile il suo beato «transito» alla patria celeste, lo invocano come speciale patrono degli ammalati e dei moribondi.
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