Se qualche volta si ha come l’impressione che questa figura sia davvero secondaria e come tale sia da emarginare, o comunque non abbia tutta l’attenzione che merita, è giunto il momento di riconsiderarla per collocare nel suo giusto posto quest’uomo, che proprio in occasione del Natale di Cristo, svolge un compito non irrilevante e comunque a lui assegnato dalla stessa divina Provvidenza, sempre a partire dai testi evangelici.
Il testo più adatto a confermare il ruolo non secondario di Giuseppe in questo lieto evento, che è appunto un “vangelo”, è quello di Matteo 1,18-24, dove l’evangelista concentra tutta l’attenzione su questo personaggio, che diventa così, se non il protagonista, un comprimario di tutto rispetto. Anche a risultare estraneo al concepimento di Maria, dovuto piuttosto all’opera dello Spirito Santo (e quindi di un seme divino, nient’affatto umano), successivamente egli viene collocato al centro di tutte quelle azioni che preparano e favoriscono il lieto evento. Potremmo dire che questo è davvero il “vangelo di Giuseppe”, cioè il fatto che lo vede come figura di primo piano, come colui che, senza voler mettersi al centro, si trova a svolgere una missione molto importante, definita soprattutto nell’essere lui a dare il nome al bambino, e quindi a riconoscerlo come suo, e soprattutto a introdurlo nella vita con ben chiara l’impostazione che deve avere quell’esistenza in forza del nome che gli viene dato dal Padre celeste e gli viene ricordato e richiamato dal padre terreno.
PADRE “PUTATIVO”?
Dovremmo sgombrare il campo da un equivoco a proposito della paternità di Giuseppe.
A partire da Luca 3,23, dove si
dice che “Gesù, quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni ed era figlio, come si riteneva, di Giuseppe …”,
a Giuseppe viene attribuito l’appellativo di “padre putativo”, come se si volesse ribadire che lui non c’entrava affatto
con il suo concepimento. In realtà penso che si debba piuttosto dire che mediante questo attributo veniva
effettivamente ritenuto suo padre, colui cioè che aveva ed esercitava la sua patria potestà, a buon diritto, perché così
lo era secondo la legge, avendo registrato questo suo figlio come suo, indipendentemente dal fatto che lo avesse
generato dal suo seme.
E qui, nella testimonianza di Matteo, coerentemente con quanto dice Luca, si può notare con
estrema chiarezza che Giuseppe sa di non essere l’artefice di questa gravidanza per Maria, che pure è sua sposa,
dichiarata e riconosciuta. Tuttavia dalle parole dell’angelo si può ben comprendere che cosa egli sia destinato a fare,
perché possa essere “ritenuto” il padre di questo bambino. Così “putabatur”, come dice il testo latino, cioè era
considerato e ritenuto per certo il padre di Gesù. E così viene ancora oggi ritenuto, non per sminuire il suo compito, ma
anzi, per esaltarlo.
Questo termine, che sempre lo accompagna e lo definisce, serve in realtà e farlo riconoscere come
un vero padre, con quel genere di paternità, che va ben oltre il suo contributo fisico nel mettere a disposizione il proprio
patrimonio genetico. La sua paternità viene esercitata, come è giusto che sia, nella comunicazione di uno spirito, nella
formazione educativa, nella trasmissione di una concezione di vita, che Giuseppe deriva propriamente dal suo “essere
giusto”.
A questo proposito l’iconografia tradizionale che ci viene offerta sulla figura di Giuseppe come padre “putativo” è quella
che lo descrive legato al figlio, che tiene in braccio, avendo accanto a sé un bastone fiorito o verdeggiante. Nelle
immagini più vicine a noi, c’è spesso il giglio, richiamo evidente al candore di una verginità, che propriamente noi
dovremmo considerare in Maria, e di riflesso anche in Giuseppe, non avendo costui avuto rapporti con la sposa.
La storia del bastone, che appare fiorito appartiene al mondo dei vangeli apocrifi, quando, per spiegare il matrimonio
di Giuseppe con Maria, la scelta dell’uomo giusto per quella donna viene fatta a partire da un segno celeste.
Nella scena dello sposalizio descritta da Giotto nella cappella degli Scrovegni, Giuseppe mette l’anello al dito di Maria tenendo in mano la sua pianta verdeggiante e fiorita, sulla cui sommità di vede spiccare il volo una colomba.
È una scena di grande delicatezza psicologica: Giuseppe fissa intensamente la sua sposa, la quale invece ha lo sguardo abbassato in segno di verecondia e di umile sottomissione. Il vecchio sacerdote, che scruta Giuseppe, unisce le due mani nell’atto in cui lo sposo sta per infilare al dito della sposa l’anello nuziale. A Giuseppe viene spesso associato il ramo fiorito, che ha la concreta immagine di un giglio, simbolo della purezza, visto che egli non ha avuto rapporti con la sua sposa, per conservarla sempre vergine. Questa è probabilmente una annotazione che va oltre il testo apocrifo, il quale si limita a parlare di un bastone dal quale si alza in volo una colomba. Il bastone fiorito vuole invece suggerire che, anche a non aver generato il Cristo, da quest’uomo viene la comunicazione della vita.
FONTE: Blog di don Ivano Colombo
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