(Tarcisio Stramare in La Santa Crociata in onore di San Giuseppe, 10/2005)
Importante per difendere l’onore della divina maternità di Maria, il titolo “sposo di
Maria”, che la Chiesa apostolica riconosce a san Giuseppe, non è meno importante
per il riconoscimento della discendenza davidica di Gesù.
Lo scrive espressamente Giovanni Paolo II nella sua Esortazione apostolica Il
Custode del Redentore: “Anche per la Chiesa, se è importante professare il
concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di
Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di
Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la
genealogia di Giuseppe” (n.7).
Evidentemente il centro di interesse di questa affermazione è la “paternità di
Giuseppe”, della quale il mistero dell’incarnazione ha bisogno. Tale mistero, infatti,
non è abbandonato al caso. Esso segue un preciso disegno di Dio, che ha la sua
sorgente nell’eternità, ma si “compie” nel tempo con scadenze precise. Questo
disegno si rivela nella “storia della salvezza”, così come la Sacra Scrittura ce la
propone, segnalandoci gli interventi salvifici di Dio, che partono dall’Antico
Testamento e trovano il loro “compimento” nel Nuovo.
Chi non ha sentito parlare di Abramo, di Giacobbe e dei suoi figli, tra i quali
Giuda? Ebbene, proprio da costui doveva discendere, attraverso il re Davide, il
Messia, termine ebraico che in greco si traduce con “Cristo”. Il mistero
dell’incarnazione supera evidentemente la promessa di un erede di Davide, perché
l’evangelista Giovanni ci dirà che “Gesù, figlio di Giuseppe di Nazareth” (1,45), il
Messia, che Filippo e i suoi compaesani avevano trovato, è nientemeno che lo stesso
“Unigenito del Padre” che si “è fatto carne” (v.14).
La fedeltà di Dio rispetta, tuttavia, la promessa fatta a Davide (cfr 2 Samuele, 7), e
il Messia sarà ugualmente un suo discendente, pur nei limiti della nuova realtà,
costituita nella persona divina del Verbo, che esclude la generazione del “seme
umano”. Al “non conosco uomo” di Maria, corrisponde, infatti, la rivelazione
dell’angelo, che “lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la
potenza dell’Altissimo” (Lc 1,34-35). Tuttavia, nonostante questa chiara esclusione
dell’apporto maschile, la “promessa davidica” rimane valida, come Luca sottolinea
ripetendo che “la vergine era sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato
Giuseppe” (v.27); che “il Signore gli darà il trono di Davide suo padre” (v.32); che
“Dio ha suscitato per noi una salvezza potente nella casa di Davide suo servo, come
aveva promesso” (vv.69-70).
Questa attenzione per le promesse di Dio è ancora più evidente in Matteo
interessato al loro “compimento” a motivo dei suoi destinatari, cristiani provenienti
dal popolo ebraico, i quali erano molto attenti alle parole delle Sacre Scritture. “Non
dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide?” (Gv 7,42), si
chiedeva la gente. Si comprende allora perché il vangelo secondo Matteo inizi
direttamente con la genealogia, la quale attraverso Davide sale fino ad Abramo:
“Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” (1,1), e poi da
Abramo scende gradualmente, sviluppando tre cicli di 14 generazioni ciascuno, fino a
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Gesù, passando ancora attraverso il re Davide (v.6), che evidentemente deve giocare
un ruolo molto importante. Essa termina, infine, a Giuseppe, che è l’ultimo anello
della nostra catena genealogica.
Questo anello, tuttavia, è completamento diverso dagli altri, perché qui non è più
usato, come per tutti gli altri personaggi, il verbo “generò”. L’evangelista scrive,
infatti: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù,
chiamato Cristo” (v.16). Matteo è ben consapevole, dunque, come esporrà
chiaramente nel successivo racconto riguardante la vocazione di Giuseppe, che costui
non ha generato Gesù, concepito, come sappiamo, per opera dello Spirito Santo
(vv.18 e 20). L’evangelista sottolinea, invece, che Giuseppe è “lo sposo di Maria,
dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo” (v.16). il titolo “sposo di Maria” è quello
che giustifica la presenza di Giuseppe, “figlio di Davide”, nella genealogia di Gesù
con lo scopo preciso di convalidarne la discendenza davidica, nonostante non sia
stato lui a generarlo. Gesù è “figlio di Davide”, perché Giuseppe. “sposo di sua
madre” Maria, è “figlio di Davide”, titolo giuridico confermato avvedutamente
dall’angelo nella sua apparizione in sogno: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di
prendere con te Maria, tua sposa” (Mt 1,20).
Se il mistero dell’incarnazione rifiuta la paternità di Giuseppe sotto l’aspetto della
“generazione”, a motivo della Persona divina che assume la natura umana, la
richiede, tuttavia, sotto altri aspetti ugualmente costitutivi della paternità, che ne
arricchiscono il contenuto, non riducibile al solo “generare”, come oggi si rende
sempre più manifesto.
Anche l’elemento giuridico è un requisito della paternità, a sua volta non unico,
ma non per questo meno importante. Ed è appunto questo che consente a Matteo, a
nome della comunità credente, di giustificare la discendenza davidica di Gesù,
mettendola in relazione al matrimonio di Giuseppe con Maria. Di fronte al fatto che
le generazioni sono state elencate negli evangelisti secondo la genealogia di
Giuseppe, sant’Agostino risponde a coloro che non erano consenzienti: “Perché non
lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse il marito di Maria? La
Scrittura afferma, per mezzo dell’autorità angelica, che egli era il marito. Non temere,
dice, di prendere con te Maria tua sposa, perché quel che è generato in lei viene
dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al Bambino, benché non
nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura
sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l’origine
della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta
l’autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al Bambino.
Infine anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo
dall’unione sessuale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo”.
Agostino può così concludere: “A motivo di quel matrimonio fedele meritarono
entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, e non solo lei, madre, ma anche lui,
suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, padre e coniuge per mezzo
della mente, non della carne” (RC, n.7).
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