Ha ancora da dire qualcosa san Giuseppe agli uomini e alle donne del nostro tempo?
Qualcosa che non si riduca alla finta «festa del babbo» (in realtà viviamo nell'epoca della «morte del padre»), inventata a scopi meramente consumistici?
Qualcosa che non si riduca alla finta «festa del babbo» (in realtà viviamo nell'epoca della «morte del padre»), inventata a scopi meramente consumistici?
La risposta appare subito problematica perché, in senso stretto, anche nei vangeli Giuseppe non «dice» neanche una parola. Ma il linguaggio, come è noto, va ben oltre i confini di quello verbale e, nel caso di san Giuseppe, forse proprio questo suo silenzio potrebbe costituire un messaggio significativo, in una società dove si dicono troppe parole. Parole spesso pronunziate non allo scopo di comunicare davvero, bensì per pura abitudine, non per aprirsi reciprocamente, ma per nascondersi, non per raggiungere un’intesa con l’altro, ma per manipolarlo. È quella «chiacchiera» che Heidegger ha indicato come uno dei segni dell’esistenza inautentica e che consiste in un parlare continuamente senza voler dire nulla. Come in tante comitive o in tanti incontri convenzionali. Come spesso sui social. Oppure quella comunicazione «strategica» smascherata da Habermas, deformazione di quella autentica, perché non mira ad entrare in rapporto con l’interlocutore in un reciproco ascolto, ma solo ad influire sulle sue scelte.
Giuseppe tace. Non esibisce i suoi sentimenti e i suoi pensieri, come oggi si fa in certi programmi televisivi, dove le esperienze e le vicende più intime vengono date in pasto alla morbosa curiosità di un pubblico che le segue come si farebbe con una corrida. O come su internet, dove ci si espone senza ritegno, rovesciando i particolari della propria vita sulla grande vetrina della rete, forse perché solo facendosi vedere dal maggior numero di persone si è davvero sicuri di esistere. Lo diceva un filosofo inglese del Settecento, Berkeley: «Esistere significa essere visti da qualcuno». Lui pensava allo sguardo di Dio, oggi ci si accontenta di quello un anonimo pubblico di «amici» a cui, in realtà, di noi interessa pochissimo. Meglio di niente, per la nostra cronica insicurezza. Ma il prezzo è di non avere più nulla da custodire. È la fine del pudore dell’anima, che è ancora più importante di quello dei corpi, e che non è vergogna, ma delicatezza e rispetto nei confronti di ciò che sta nel profondo. Giuseppe, col suo silenzio, interroga, oggi, una umanità che vive alla superficie di se stessa e i cui stati d’animo, pensieri, passioni, sono perciò permanentemente offerti a metà prezzo a chiunque si prende la briga di gettare su di essi, fugacemente, il suo sguardo annoiato o di prestar loro il suo orecchio distratto. Ne Il vangelo secondo Matteo Pasolini ha genialmente interpretato il momento in cui il promesso sposo viene a conoscenza della maternità di Maria, come un dialogo tra due silenzi. Silenzio del pudore. Così come in silenzio Giuseppe accoglie il messaggio che l’angelo gli porta in sogno e accetta il difficile ruolo che gli viene affidato.
Oggi si riduce spesso la vocazione a una inclinazione soggettiva e si sostituisce il concetto di autorealizzazione a quello di missione. Ma la chiamata è tale solo se viene da un Altro: non ci si può chiamare da sé. E ci si realizza se si adempie un compito che valga in sé, e non solo in funzione della realizzazione di chi lo svolge. Giuseppe non chiede garanzie per se stesso, ma proprio per questo si è realizzato. «Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Silenzio della risposta alla vocazione.
Ed ancora è un angelo che lo avverte del mortale pericolo che incombe su quel bambino che non è suo, ma che gli è stato affidato, e dell’urgenza di fuggire. E Giuseppe obbedisce: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto» (Mt 2, 14). La stessa obbedienza tacita è la risposta, qualche tempo dopo, all’annuncio dell’angelo che il pericolo è finito: «“Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2, 20-21). Oggi si scambia spesso l’obbedienza con la passività e la disobbedienza come un atto di libertà. Ma il Vangelo in entrambi i casi, con l’enfasi ricorrente sul verbo «si alzò», sottolinea come quella di Giuseppe esprima, al contrario, energia e decisione. Subire è da schiavi, chi obbedisce deve farlo «in piedi». Così ha fatto Giuseppe, senza dire una parola. Silenzio dell’obbedienza che rende liberi.
Ed ancora è un angelo che lo avverte del mortale pericolo che incombe su quel bambino che non è suo, ma che gli è stato affidato, e dell’urgenza di fuggire. E Giuseppe obbedisce: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto» (Mt 2, 14). La stessa obbedienza tacita è la risposta, qualche tempo dopo, all’annuncio dell’angelo che il pericolo è finito: «“Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2, 20-21). Oggi si scambia spesso l’obbedienza con la passività e la disobbedienza come un atto di libertà. Ma il Vangelo in entrambi i casi, con l’enfasi ricorrente sul verbo «si alzò», sottolinea come quella di Giuseppe esprima, al contrario, energia e decisione. Subire è da schiavi, chi obbedisce deve farlo «in piedi». Così ha fatto Giuseppe, senza dire una parola. Silenzio dell’obbedienza che rende liberi.
Così, questo santo è in grado oggi di parlare al nostro mondo chiassoso e disperso proprio con i suoi silenzi. Per comprenderne il messaggio, però, bisogna che impariamo a tacere. Per ascoltare le voci degli altri, ma anche quelle che salgono dal profondo di noi stessi. Nella vita di ogni uomo c’è un momento in cui un angelo porta un messaggio che potrebbe cambiarla. Il rischio è di essere troppo assordati dalle parole vane che sentiamo e che diciamo per poterlo accogliere. Che Giuseppe ci aiuti a fargli spazio dentro di noi, quando verrà, per riconoscerne la voce.
(Giuseppe Savagnone, in Toscana Oggi, 18 marzo 2018)
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