SAN GIUSEPPE (di Antonio Maria Sicari, Ocd) - Quinta parte

«Sarà chiamato Nazareno» (Mt 2,23).

Al ritorno dall’Egitto, a Giuseppe non è concesso nemmeno di stabilirsi a Betlemme (ciò che sarebbe stato un segno di autenticazione per il futuro Messia), ma deve tornare a Nazareth, villaggio quasi sconosciuto, che provocherà in seguito innumerevoli derisioni. “Può mai venir fuori qualcosa di buono da Nazareth?” (Gv 1,46) dirà perfino l’onesto e pio israelita Natanaele, al momento della sua chiamata. E lo ripeteranno in seguito i sacerdoti, osservando che il Messia non può essere un galileo. E lo sottolineerà Pilato, per schernire gli ebrei, abbinando sulla Croce due titoli: “Gesù il Nazareno” – “Re dei Giudei” (cfr. Gv 19,19).
Dell’infanzia di Gesù, oltre a ciò che abbiamo raccontato, sappiamo solo che a Nazareth «il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 2,40). L’uso è perciò quello di caratterizzare questo periodo come “vita nascosta di Gesù”: l’espressione, detta in riferimento al suo futuro pubblico ministero, può avere un senso. Non lo ha invece se si pensa alla vita che scorre nella casa di Nazareth. Niente è più conosciuto e più facilmente immaginabile di una normale vita familiare, mente il bambino cresce sotto gli occhi e le cure dei suoi genitori, mentre Maria bada alla casa e Giuseppe lavora nella sua bottega di carpentiere.
Lo ha intuito splendidamente Péguy scrivendo: «Il quarto comandamento, l’ammirabile comandamento dato da Dio al suo popolo sul Sinai, era questo: “Onorate il padre e la madre, per potere vivere lungamente sulla terra che il Signore vostro Dio vi donerà”. [Esso ha rivestito] una giovinezza e una forza nuove, letteralmente: una nuova autorizzazione. Il fatto è che si è prodotto per noi un avvenimento nuovo, un avvenimento di portata e di conseguenze incalcolabili. Una famiglia modello ha, per così dire, “funzionato” davanti a noi, sotto i nostri occhi, una famiglia da imitare. Gesù si è rivestito di quel quarto comandamento, l’ha esercitato e, per ciò stesso, solo per questo (davanti a noi), lasciandolo lo stesso, ce lo ha reso nuovo. (…) Una famiglia e una bottega brillarono eternamente davanti a noi. (…). Ed è proprio da quel tempo, è da allora che la famiglia cristiana è stata istituita. Istituita non solo da una legge e da un comandamento. Ma istituita da un esempio, e su un esempio vivente. Su un esemplare, e su quale esemplare! Da quel giorno ogni papà e ogni mamma cristiani sono un’immagine di Giuseppe e di Maria, ogni figlio e ogni figlia cristiani sono un’immagine di Gesù. Ogni papà e ogni mamma sono allievi e discepoli di Giuseppe e di Maria, e ogni figlio e ogni figlia sono dei piccoli allievi, dei piccoli seguaci di Gesù. I bambini sono letteralmente alla scuola del piccolo Gesù. Gesù ha creato per noi un modello perfetto di obbedienza filiale e di sottomissione, mentre creava per noi anche il modello del lavoro manuale e della pazienza…».
«Nella morale cristiana e anche nella teologia cristiana la legge del lavoro non ha una base di applicazione più seria che il lavoro quotidiano di Gesù nella bottega di Nazareth. La legge del lavoro è una legge, un comandamento sia dell’antica come della nuova Legge. Ma come è nuova questa legge, come è nuovo questo comandamento, come tutto del resto, nella Nuova Legge! (…) Ma Gesù, indossando per così dire questa legge e la legge dell’umiltà, ne ha fatto uno statuto di amore. Così è nato il Lavoro nuovo. Da allora, migliaia e migliaia di botteghe cristiane non sono state altro che imitazione della bottega di Nazareth. (…) E’ questo il tessuto stesso, il midollo del mondo cristiano. Migliaia e centinaia di migliaia di uomini, migliaia di operai cristiani non hanno avuto che questo da fare: “la loro giornata”; non hanno avuto da far altro che lavorare tranquillamente dal mattino alla sera, con gli occhi fissi unicamente a quell’umile bottega di Nazareth. E chi ha lasciato il banco e la pialla solo per mettersi a letto e morire è colui che è più gradito a Dio» (Un Nouveau Théologien, p. 107).
Anche se espresso in termini poetici e contemplativi, non c’è nulla in questo brano che non sia realistico, che non dica esattamente l’intento di Dio nell’incarnazione di suo Figlio: nel metterlo per tanti anni, giorno per giorno, proprio là nella casetta e nella bottega di Nazareth. Potremmo sintetizzare tutto riflettendo al rapporto unico, ogni giorno rinnovato e mai perfettamente compiuto, che Giuseppe dovette intrattenere con Dio Padre, «dal quale ogni paternità in cielo e in terra prende nome» (Ef 3,15).
Davanti allo Sposo di Maria stava il Bambino che sapeva tutto in cielo e doveva imparare tutto in terra. Gesù doveva imparare a chiamare Giuseppe: “Abbà”, per trasferire in questo linguaggio infantile la sua eterna intimità col Padre celeste, e per insegnarcelo e per darne anche a noi il diritto. Gesù ha imparato, prestissimo, – proprio rivolgendosi a Giuseppe – sillabe così brevi e familiari e subito le ha usate anche per rivolgersi al Padre celeste. Ed ecco che in cielo è penetrata questa invocazione nuova e sorprendente che ha rallegrato la Trinità. Invocazione che ora tutti possiamo usare. In seguito Giuseppe ha dovuto insegnare a Gesù le parole e i sentimenti umani che Egli poi avrebbe messo per noi nella preghiera del “Padre nostro”.
Giuseppe, dunque, ha dovuto esaurire tutto se stesso nel rappresentare, nella famiglia di Nazareth, il volto del Padre celeste: la Sua provvidenza, la Sua energia, le Sue decisioni. Doveva con i suoi atteggiamenti e col suo stesso volto acuire nel bambino la nostalgia del Padre celeste, ma senza tristezza. E se pensiamo alla sacra famiglia riunita – a quella che è stata chiamata la Trinità terrena – come dimenticare il mistero quotidiano che vi si ripeteva all’infinito? Per Giuseppe e Maria i due grandi Comandamenti che impongono di “amare Dio con tutto il cuore, l’anima e le forze” (Dt 6,5) e di “amare il prossimo come se stessi” (Lev 19,18) diventavano una cosa sola, dato che Gesù era assieme il loro Dio e il loro prossimo, che potevano e volevano amare con un solo battito del cuore. Per Giuseppe e Maria il culto dovuto a Dio (preghiere, offerte, sacrifici…) era tutto a dimensione di Bambino: bastava parlargli e ascoltarlo; bastava aderire alle sue piccole necessità e ai suoi giochi; bastava loro ogni intervento educativo e ogni piccolo gesto di tenerezza…


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