VITA QUOTIDIANA DI UN BUON FALEGNAME (E OTTIMO PAPÀ)
(Stefania Colafranceschi, in L'Osservatore Romano, 1 maggio 2008)
I Vangeli non fanno riferimento all'attività di Giuseppe: se ne parla solo in occasione della discussione sulla provenienza del Cristo: "Non è costui il falegname, il figlio di Maria ?".
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La "Sacra Famiglia" di Giuseppe Clovio |
Il termine usato dagli evangelisti - tèkton - tradotto con "falegname", può assumere il significato di "carpentiere" e "fabbro". L'apologista Giustino nel Dialogo con l'ebreo Trifone, composto intorno al 155, riferisce che Gesù faceva aratri di legno e gioghi. E nell'apocrifo dello Pseudo-Matteo e nella Storia di Giuseppe falegname si dice espressamente che Giuseppe "era ben istruito nella saggezza e nell'arte della falegnameria". L'iconografia trasmette sporadicamente questo aspetto di san Giuseppe faber lignarius: si segnalano due miniature del dodicesimo e tredicesimo secolo relative alla scena del ritorno di Giuseppe dai cantieri, in cui si evidenzia l'uso di strumenti da lavoro: nella prima una sega e nell'altra un'ascia.
Queste figurazioni, attribuite a maestranze del nord-Italia, non erano frutto del caso; una corrente dottrinale, infatti, ha inteso vedere nel santo che lavora per fabbricare oggetti utili, l'immagine del Padre celeste, artefice di tutte le cose, o anche lo Spirito santo, santificatore.
E Massimo il confessore (+ 662): "Esercitava il mestiere di carpentiere, esperto nell'arte più di tutti gli altri carpentieri: infatti doveva essere al servizio del vero architetto, il creatore e carpentiere di tutte le creature". Si trattava, in definitiva, di un discorso esegetico che presentava in chiave simbologica - tipo/anti-tipo - il personaggio e il suo mestiere, ponendolo in stretta relazione con la divinità e la sua opera salvifica: Adamo-Eva = Giuseppe-Maria = Cristo-Chiesa; Dio artefice del creato = Giuseppe artigiano di manufatti.
Sul piano testuale, le fonti d'ispirazione nel medioevo furono principalmente due: la Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze, enciclopedica raccolta di vite dei santi a uso dei predicatori, a cui attinsero ampiamente anche gli artisti, e le Meditationes dello Pseudo-Bonaventura, opera mistica di ambito francescano, in cui nel capitolo sulla permanenza in Egitto si legge: "Trovano una casetta e vi restano per sette anni(...) Ho letto da qualche parte che la Signora procurava il necessario alla vita per sé e per suo figlio tessendo e cucendo(...) In più, c'era quel santo vecchietto di Giuseppe che, come falegname, si dava da fare".
Nell'arte paleocristiana, la figura di san Giuseppe venne rappresentata con intenti narrativi e didascalici, quale elemento provvidenziale della Redenzione. E per connotarlo visivamente, una sega al suo fianco, come vediamo ad esempio nell'Evangeliario di Milano, del quinto secolo; una figurazione affine compare nel riquadro di seta sargia, appartenente al tesoro del Sancta Sanctorum al Laterano in Roma, risalente al sesto secolo. Si andava affermando la rappresentazione del faber lignarius, "un tipo carico di realismo, e perciò coerente con lo spirito della società occidentale: la quale, come ad esempio preferì vedere il martire non nella ieratica trascendenza dell'arte orientale, ma nella realtà della sua sofferenza e conseguentemente lo raffigurò con gli strumenti della sua passione, allo stesso modo volle vedere Giuseppe in una dimensione tutta umana: uomo dunque tra gli uomini, non diverso dagli altri solo perché eletto a rendere testimonianza del grande avvenimento dell'incarnazione".
Nel medioevo, con la fioritura delle sacre rappresentazioni, spettacolo di piazza edificante, Giuseppe presenta i tratti del padre operoso e accogliente: sistema la paglia, giaciglio di fortuna nella povera stalla, dove il Bambino giace come ostia di splendente candore, nell'oscurità della grotta. E porta fascine, accoglie i pastori offerenti, esprimendosi nel linguaggio umano dei sentimenti.
Il rinascimento, poi, vede affermarsi nuove figurazioni, ispirate alle Rivelazioni di santa Brigida: Giuseppe va in cerca di un lume, di fuoco, di cibo. La sua immagine si arricchisce di aspetti, gesti e motivi, tratti dalla quotidianità, assumendo sempre più un profilo realistico e attualizzato.
Mentre fino al rinascimento Giuseppe veniva raffigurato all'interno del ciclo dell'infanzia, e mai isolatamente, l'affermarsi del culto, nel corso del quindicesimo secolo, determinò tipologie innovative che ne accentuavano il ruolo di padre putativo, educatore, intercessore e patrono. Ciò si deve, innanzitutto, all'azione degli ordini mendicanti, promotori di una pietà più vicina alla sensibilità dei fedeli: in Italia san Bernardino da Feltre e san Bernardino da Siena contribuirono alla diffusione del culto, sollecitandone la raffigurazione in sembianze di età matura, e non senile come d'uso; il prestigioso teologo francese Giovanni Gerson ne promosse la devozione, da esprimersi concretamente nella festa dello Sposalizio di Maria e Giuseppe.
L'introduzione ufficiale del culto è legata alla figura di Sisto IV (1471-1484): il testo non ci è pervenuto, ma la sua promulgazione è sicura, poiché il Breviario romano, pubblicato a Venezia nel 1479, offre per la prima volta, al 19 marzo, la festa del santo.
Gregorio XV, nel 1621, ne decretò la festa, tra quelle comandate; a partire da questa data, si registra un impulso particolare della produzione artistica, dovuto soprattutto alla committenza di gruppi laicali, confraternite, compagnie d'arti e mestieri, istituti religiosi, che ne invocavano il patrocinio, e vollero dotarsi di opere d'arte rappresentative. È di questo periodo una molteplicità di realizzazioni: cicli pittorici, pale d'altare destinate alla decorazione di omonime cappelle, statue, incisioni, reliquiari, medaglie.
Per quanto riguarda, specificamente, l'attività artigianale, la prima scena di lavoro che vede Giuseppe intento al banco di falegname, è quella riferita al miracolo dell'asse allungata, di derivazione apocrifa. Si narra come il falegname, trovandosi alle prese con un'asse dalla lunghezza non corrispondente a quanto ordinatogli, trovasse aiuto nel bambino Gesù, che prodigiosamente intervenne dicendogli di tirare insieme l'asse, allungata come occorreva: la scena è narrata nell'Evangelica Historia, opera trecentesca di ambito lombardo: "Quando Gesù aveva otto anni, Giuseppe faceva il falegname e lavorava col legno. Un giorno un uomo ricco lo pregò dicendo: signor Giuseppe, vi prego che mi facciate un letto ottimo e bello, e gli fornì il legno per l'opera. Giuseppe preso il legno cominciò a misurarlo: non andava bene però per fare quel mobile, perché l'aveva tagliato (male). Si angustiava Giuseppe, perché non riusciva a fare come voleva. Il fanciullo Gesù vedendo Giuseppe rattristarsi, gli disse: non angustiarti, ma prendi il legno da un capo e io lo prenderò dall'altro, e lo tirerò quanto possiamo. Fatto questo, Giuseppe si accinse di nuovo a misurare il legno e lo trovò ottimo per quel lavoro. Visto quello che aveva fatto Gesù, Giuseppe lo abbracciò dicendo: "Sono felice che Dio mi ha dato un tale fanciullo"". L'episodio venne a lungo tramandato, divenendo parte integrante della tradizione orale.
Ma la scena di lavoro più largamente rappresentata, fu la Sacra Famiglia nella bottega, i cui primi esemplari si ebbero all'inizio del sedicesimo secolo - Albrecht Durer (1471-1528), Luca Cambiaso (1527-1585), Federico Barocci (1535-1612), Bartolomeo Schedoni (1578ca-1615). Questa iconografia intendeva descrivere la vita quotidiana a Nazaret, secondo il gusto per il naturalismo e lo stile descrittivo invalso nell'arte sacra.
Lo schema figurativo presenta Maria, intenta a cucire o filare, Giuseppe falegname al suo banco da lavoro, alle prese con l'accetta, la sega, o la pialla, contornato dagli attrezzi e dalle travi - generalmente tre - e Gesù operoso, impegnato nell'apprendistato, o nelle piccole incombenze domestiche.
Nel periodo della riforma cattolica si dedicò particolare attenzione alle immagini, quale tramite per richiamare ideali di operosità; e soprattutto con l'istituzione della festa liturgica nel 1621, il tipo iconografico del santo falegname conobbe una speciale fioritura, e venne arricchito di elementi simbologici, funzionali agli intenti catechetici di cui l'arte doveva farsi interprete. All'interno del contesto narrativo della Sacra Famiglia, intessuto di aspetti leggendari e dottrinali, troveranno spazio elementi che esplicitano il presagio della Passione, innanzitutto nel motivo iconografico della croce, presente in modo figurato o in via di realizzazione; inoltre, il tema è richiamato dagli strumenti da lavoro, che alludono significativamente agli strumenti della Passione, e ancora, è rievocato dai simboli eucaristici.
Gli strumenti, la croce, i simboli, richiamano così alla mente dell'osservatore non solo il mestiere compiuto dal padre e dal figlio, ma soprattutto il progetto salvifico che quegli strumenti avrebbero portato a compimento. Assumevano, dunque, una valenza simbolica archetipica, tale da potersi riproporre in altre scene del ciclo santorale, al di fuori del proprio contesto narrativo: figurano infatti nelle scene del Sogno, come si vede nella maiolica settecentesca di Monticchio - sita nel chiostro del monastero del Santissimo Rosario di Monticchio a Massa Lubrense (Napoli) - o nella Natività della Chiesa di san Francesco a Camerano (Ancona), o in varie raffigurazioni del Transito.
L'iconografia della Sacra Famiglia nella bottega del falegname, dunque, si fa portatrice di temi e motivi profondi e significativi, a partire dal diciassettesimo secolo, improntando figurazioni nuove, pur attingendo al repertorio iconografico tradizionale. La spiritualità della riforma cattolica portò infatti all'innovazione dei moduli consueti, e altri ne determinò. Questo il processo riscontrabile nelle seguenti figurazioni.
In primo luogo si propone la raffigurazione dell'Oratorio del Binengo di Sergnano (Cremona): opera di fattura popolaresca, dall'impianto figurativo essenziale, mostra un originale motivo iconografico sullo sfondo, una torre, simbolo mariologico, da cui provengono gli angeli recanti le travi. Mentre Giuseppe pialla, Maria cuce, e Gesù adolescente spazza; si legge, nella Mistica Città di Dio di suor Maria de Agreda (1717), come nella vita familiare Maria e Gesù riordinano e riassettano l'ambiente di lavoro .
Più ricercata l'impostazione della Sacra Famiglia attribuita a Giulio Clovio (1498-1598), pergamena dipinta della Fondazione Querini-Stampalia (Venezia): un fitto pergolato sovrasta la scena, in cui campeggia il Bambino, in candida veste, che trattiene un fiore allusivo alla futura Passione. Giuseppe lavora al bancone, mentre gli angeli dispongono il legno, in piccoli pezzi. Nel cesto di Maria, la veste azzurra che richiama la divinità, la natura divina che Cristo assumerà.
Vari dettagli simbologici richiamano la nostra attenzione: i legni tra le mani dell'angelo chinato, dall'apparenza di canne spezzate, sono tre, come tre quelli nel cesto, di cui uno, ricurvo, descrive una croce sovrapponendosi all'ultimo legnetto. La canna raffigurata, sembra richiamare il momento delle battiture inflitte al Cristo nel Pretorio, così come l'uva del pergolato richiama il sangue versato per la Redenzione degli uomini. Ancora, i tre vasi di fiori si differenziano per il loro contenuto: quello accanto a Giuseppe è spoglio, mentre quello più prossimo al Bambino è fiorito e rigoglioso; in lontananza, il giardino circoscritto da mura rievoca il tema dell'Hortus Conclusus.
Ancora più esplicito il riferimento eucaristico nella Sacra Famiglia di Jan Soens (1547ca-1610-11), in cui campeggia una vite avviluppata al tronco centrale, il cui frutto maturo viene offerto da un angelo che si fa incontro all'osservatore; il Bambino prende per mano Giuseppe, per volgerlo verso Maria intenta a cucire la veste della Passione.
Una linea ideale congiunge il volto di Maria, lungo l'asse visivo della tettoia di paglia, alla figurazione dell'uccellino, che simbolizza il paradiso. E un'altra linea ideale sembra riconnettere lo sguardo della madre, dapprima al figlio, e successivamente alla mano operosa del falegname.
Il gioco di sguardi è emblematico nella seicentesca Sacra Famiglia del Maestro di Serrone, oggi nel museo diocesano di Foligno, in cui il Bambino, dall'espressione intensa, sta annodando due legnetti, in foggia di croce, con un filo proveniente dal gomitolo nel cesto, significativamente posato su un libro di piccole dimensioni, che allude alla Scrittura. E accanto, il drappo azzurro che simbolizza il divino.
Caratteristica la Sacra Famiglia di Cesare Mariani (1828-1901) - nella chiesa romana di san Giuseppe dei Falegnami - in cui la croce domina la scena, efficace richiamo visivo, insieme alla veste rossa di Gesù, che richiama la Passione.
Di particolare valore simbologico, l'opera del pistoiese Giuseppe Catani Chiti, che partecipò al concorso nazionale di Torino per una Sacra Famiglia, nel 1898. Il trittico in cui è inserita la rappresentazione, denota il gusto per la tradizione pittorica senese; il fulcro della composizione risiede nella particolarità del giogo sulle spalle di Gesù, iconografia di ispirazione francescana, presente nella vela dell'obbedienza nella basilica inferiore ad Assisi. L'iscrizione evangelica che appare sul giogo iugum meum suave est, richiama la mite sottomissione del Cristo, quale figlio nella Sacra Famiglia, e con accentuato simbolismo allude all'obbedienza evangelica; Giuseppe trattiene tra le mani una parte dell'aratro in costruzione, di cui l'elemento in primo piano è una componente. Molti i dettagli rivelatori di una profonda cultura scritturistica e simbologica: le lumeggiature radiali, l'arcobaleno, il colorismo delle figurazioni.
Il pittore contemporaneo Rodolfo Romano ha realizzato nel 1990 La Famiglia di Nazaret. Qui Giuseppe è il protagonista di primo piano, lavora una croce, dinanzi a una tavola su cui si nota una brocca, del pane, e frutti simbologici: una mela e dell'uva.
La stella davidica, distinguibile nella decorazione a parete, richiama la stirpe; il fuoco manifesta lo Spirito. Sul pavimento, la luce della finestra proietta un'ombra a forma di croce; è segno dell'estremo abbassamento. L'insieme dei temi e motivi che l'iconografia ha espresso, riguardo la figura di Giuseppe artigiano, si rispecchiò infine nelle immaginette sacre, in un processo di continuità che attesta, al di là dei limiti spazio-temporali, la persistenza di moduli figurativi di molto anteriori, e la cui lettura, e decifrazione, apre la via a cognizioni di sorprendente valenza culturale. Un santino, particolarmente rappresentativo della tipologia in esame, illustra la Sacra Famiglia nella bottega; qui anche Gesù ha l'abito da lavoro, conformandosi a Giuseppe, che presenta - specie a partire dall'istituzione della festa di Giuseppe patrono del lavoratori, decretata da Papa Leone XIII nel 1889 - l'abito da operaio, non più il saio o l'abito confraternale, di cui era precedentemente rivestito.
SAN GIUSEPPE E LA SPERANZA
(Movimento Lavoratori di Azione Cattolica)
Sappiamo bene che la speranza è un dono divino da chiedere nella preghiera, frutto dell'amore che il Signore è venuto a portarci con la sua presenza e la sua promessa. San Giuseppe è un padre che accoglie Maria senza alcuna condizione. La via spirituale che San Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma è una via che accoglie. Nei nostri giorni, qui sulla terra tra di noi, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, nel mondo del lavoro, attraversiamo la porta per sentirci tutti pellegrini di speranza, che camminano perché la cercano, ma anche perché sono disposti a donarla.
Se vogliamo essere come Gesù dobbiamo farci porta dell’ovile, pur consapevoli che le pecore non sono “nostre”, ma ci sono affidate: siamo come apprendisti accanto al Pastore.
Giuseppe, “lascia andare” Maria da Elisabetta: quest’ultima, quando scopre il disegno di Dio, forse senza comprenderlo, lascia entrare Maria nella sua vita, diventa ovile, rifugio, per lei e per quel figlio non suo. Giuseppe è custode delle vite che Dio gli ha affidato, ma esse non gli appartengono, le custodisce con cura e in piena libertà, non le possiede: in questo senso è forse più vicino a noi di Maria, che fisicamente partorisce e allatta.
Giuseppe è disarmato, vuole farla fuggire, e ancor più disarmato si assume la responsabilità di custodire quelle vite, frapponendosi fra l’amore per lei e la morale del mondo. Di fronte allo sfruttamento del lavoro, all’odio razziale, al disprezzo del diverso, agli episodi di femminicidio, alla violenza della guerra, come Giuseppe siamo chiamati a mettere in campo la nostra vita, il nostro corpo disarmato. Come Giuseppe siamo chiamati a sperare nelle relazioni. La preghiera sugli sposi recita: fedeli a un solo amore. Per restare fedeli occorre fidarsi dell’altro, di noi stessi e dell’essere chiamati ad essere uno in Lui.
CON LA TUA PROTEZIONE, SAN GIUSEPPE
(Marco Guizzo, in "La Santa Crociata in onore di San Giuseppe - aprile 2023, pp. 18-19)
Vidor è un paese di circa 3700 abitanti, adagiato tra il fiume Piave e le dolci colline del Conegliano Valdobbiadene, coltivate a vite, famose come Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO.
Due suoi monumenti risalgono a un passato ormai lontano: il castello medievale e l'abbazia di santa Bona. Il castello, in cima a un colle, risale all'anno 1000 e ha avuto il periodo di maggior splendore nel XIV secolo. Fondato dalla nobile famiglia dei Da Vidor, esso era un punto di riferimento per l'intero Quartier del Piave perché situato in posizione strategica nelle vicinanze dell'antico porto sul fiume Piave. La rocca vidorese, conquistata e semi-distrutta in più occasioni, capitolò definitivamente nel 1510 a opera delle truppe del generale Liechtenstein, agli ordini della Lega di Cambrai. Dopo la sua distruzione rimase in piedi l'antica cappella del castello, che divenne la chiesa parrocchiale con il nome di santa Maria in Castello. Rasa quasi completamente al suolo durante i combattimenti della Prima Guerra mondiale, nella battaglia di Vidor il 10 novembre 1917, al suo posto venne eretto, tra il 1923 e il 1925, un monumento-ossario ai Caduti.
Altro vanto di Vidor è l'abbazia benedettina di santa Bona. Nel 1106 una piccola cappella nei pressi del Piave fu donata all'abate di Pomposa da alcuni nobili del posto, dando vita al complesso abbaziale per custodire le reliquie della giovane vergine egiziana Bona, recuperate da Giovanni da Vidor in Terra Santa durante la prima crociata (1096-1099). L'abbazia appartenne ai benedettini per circa duecento anni, poi subì un lento declino. Intorno al 1300 passò sotto l'istituto della commenda e successivamente divenne proprietà privata di alcune famiglie nobiliari. Fu parzialmente distrutta durante la Grande Guerra e successivamente ricostruita con alcune modifiche. Il complesso è formato dalla chiesa, da un elegante chiostro con affreschi del XV secolo, da un corpo principale con sale riccamente decorate e da un secondo corpo ove trovavano posto le stalle e i granai, oltre a un ampio giardino con alberi centenari e una suggestiva terrazza aperta sul Piave.Vidor - Fonte: Wikipedia
Lungo la strada che dal centro del paese porta all'abbazia si trova una piccola cappella intitolata a san Giuseppe. Nonostante la scarsità di fonti storiche, sembra che proprio dall'erezione di questo luogo di culto sia nata la devozione vidorese per lo Sposo di Maria. La chiesetta venne edificata tra il 1693 e il 1742 accanto alla dimora nobiliare della famiglia Pateani, ricchi possidenti terrieri che diedero al paese di Vidor due parroci. L'oratorio di san Giuseppe venne distrutto durante la guerra e successivamente ricostruito nel 1925 per volontà dei conti Vergerio Reghini. L'interno, molto semplice, ha un piccolo altare in marmo sopra il quale è posta una pala raffigurante il Transito di san Giuseppe. È del 1926, opera del pittore veneziano Luigi Gasparini, e rappresenta la morte del Santo e, in preghiera, la contessa Giovanna Vergerio Reghini, deceduta nel 1925, con accanto il figlio Reghino, caduto nel 1918. Il quadro dimostra la devozione al Santo da parte della nobile famiglia.
Nel passato la chiesetta di san Giuseppe è stata un punto di riferimento per la comunità di Vidor. Da un documento del 1886 sappiamo che nel giorno del Patrono (19 marzo) vi si celebrava la Messa e nel pomeriggio i Vespri, oltre a una processione per le vie del paese. Questa tradizione si perpetuò per decenni fino ad alcuni anni fa, quando purtroppo non fu più possibile accedere alla chiesa per problemi di agibilità della struttura. Non si hanno documenti sul momento in cui san Giuseppe divenne patrono del paese di Vidor, ma possiamo ritenere che l'affidamento al Santo sia nato con la costruzione di questo oratorio. Anche la sagra nel mese di marzo ha origini antiche, in concomitanza con la fondazione della chiesetta campestre. Una delibera comunale degli anni '80 fissa il 19 marzo come festa del patrono.
Immagini di san Giuseppe le troviamo nella chiesa parrocchiale del Santo Nome di Maria. L'edificio sacro fu benedetto nel 1748, al posto della chiesa del castello. Ospita pregevoli opere di Guido Cadorin realizzate tra il 1922 e il 1926, oltre a due pale d'altare dell'artista veneziano Francesco Zugno del 1750. Entrando dal fondo della chiesa, nella prima cappella a sinistra troviamo l'altare dedicato a san Giuseppe. La statua lignea del santo è opera dello scultore Stuffer della Val Gardena, posta nel 1967 per volontà del parroco don Marcello Favero in sostituzione di una precedente raffigurante santa Filomena.
Nel giorno del patrono viene celebrata una messa solenne, molto partecipata dalla poроlazione, e la locale Pro Loco organizza una sagra di due settimane con degustazioni tipiche, luna park e un grande mercato; contemporaneamente sono possibili visite guidate all'abbazia di santa Bona.
Un altro semplice ma significativo segno della devozione al santo lo troviamo nella frazione di Colbertaldo, dove è presente una edicola con un affresco realizzato da un artista locale, raffigurante una Madonna con Bambino, i santi Giovanni e Francesco d'Assisi e, appunto, san Giuseppe. Egli è dunque ben presente a Vidor. Alle nuove generazioni è affidato il compito di coltivare in futuro la devozione al Santo, che da alcuni secoli accompagna la vita del nostro paese ed è vitale sulle nostre famiglie.